domingo, 2 de agosto de 2015

SPIRITUALITA' EYMARDIANA

Vita di S.P. Giuliano Eymard
SPIRITUALITA'  EYMARDIANA
SOMMARIO





Il Sacro Cuore di Gesù , scritto di S. Pietro Giuliano Eymard



S. Pietro Giuliano Eymard
IL SACRO CUORE DI GESÙ


Il mio cuore sarà lì per sempre (1 Re 9, 3)
San Paolo augurava agli Efesini che potessero conoscere ñ mediante la grazia del Padre, dal quale procede ogni dono ñ la scienza sopraeminente della carità di Gesù Cristo verso gli uomini.
Non avrebbe potuto desiderare cosa più santa e più vantaggiosa, né cosa più importante. Conoscere l'amore di Gesù Cristo, essere ripieni della sua pienezza, questo è il regno di Dio nell'uomo. Ma questo non è che il frutto della devozione al Cuore di Gesù che vive e che ci ama nel SS.mo Sacramento. Questa devozione è il supremo culto dell'amore. È l'anima di tutta la religione, il suo centro; la religione infatti è la legge, la virtù, la perfezione dell'amore; e il Sacro Cuore ne è la grazia, il modello, la vita. Studiamo questo amore dinanzi al focolare nel quale esso si consuma per noi.
La devozione al Sacro Cuore ha un duplice oggetto; essa in primo luogo si propone di onorare, con l'adorazione e il culto esterno, il cuore di carne di Gesù Cristo, ed onorare inoltre l'amore infinito di cui ha bruciato questo Cuore dal dì della sua incoronazione e che ancora lo consuma, sui nostri altari.
1. - IL CUORE, COMPENDIO DI TUTTA LAVITA.
La più nobile tra tutte le facoltà dell'uomo è il cuore. Il suo posto è al centro del corpo, come un re che sta al centro dei suoi stati. È immediatamente circondato dalle membra più importanti, che sono come i suoi ministri e i suoi ufficiali; esso li muove, dà loro l'attività comunicando loro quel calore vitale di cui è la riserva. E' la sorgente donde sprizza impetuosamente il sangue, per spandersi in tutte le parti dell'organismo, le innaffia e le rinfresca. Questo sangue poi, debilitatosi, dalla periferia torna al cuore per riaccendervi i suoi fuochi e riprendervi nuovi spiriti di vita.
Ciò che si dice del cuore umano, in genere si applica pure al Cuore adorabile di Gesù Cristo. Esso è la porzione più nobile del corpo dall'Uomo-Dio, il quale essendo unito ipostaticamente al Verbo merita quel culto :supremo di adorazione che compete a Dio solo. Molto importante il non separare mai, nella nostra venerazione, il Cuore di Gesù dalla divinità dell'Uomo-Dio; essi sono uniti da legami indissolubili, e il culto che noi rendiamo al cuore dell'Uomo-Dio non si ferma solo a questo, ma va alla Persona adorabile a cui appartiene e che gli si è unito per sempre.
Ne consegue che noi possiamo rivolgere a questo Cuore divino le preghiere, gli omaggi, e le adorazioni stesse che offriamo a Dio. Si sbagliano dunque coloro che quando sentono questa frase: "il Cuore di Gesù" limitano tutti i loro pensieri a quest'organo materiale e non vi vedono che un membro senza vita e senz'amore, ritenendolo, nulla più che una Sacra reliquia; né si sbagliano di meno quelli che credono che questa devozione fraziona Gesù Cristo e restringe al solo Cuore un culto che è dovuto a tutta la sua Persona. Onorando il Cuore di Gesù noi non escludiamo tutto il resto del divino composto dell'Uomo-Dio; onorando il suo Cuore noi intendiamo celebrare tutte le azioni, tutta la vita di Gesù Cristo, che a ben pensarci non è che la diffusione all'esterno del suo Cuore.
Come i raggi caduti che fertilizzano la terra e conservano nel mondo la vita non si formano che nel sole, dal quale nascono, così dal cuore nascono quelle dolci e forti influenze che portano il calore vitale e il vigore in tutte le membra. Quando, il cuore è languido tutto l'uomo languisce con esso; se esso soffre, soffre pure tutto il corpo, le funzioni si fanno irregolari e l'organismo si guasta. Il compito del Cuore di Gesù fu perciò quello di vivificare, fortificare e sostenere tutte le sue membra, tutti i suoi organi e i suoi sensi con delle influenze continuate, in modo che esso era il principio delle azioni, delle affezioni, delle virtù e di tutta la vita nel Verbo fatto carne.
Per consenso unanime di tutti i filosofi il cuore è ritenuto il focolare dell'amore; e se il motore di tutta la vita di Gesù è stato l'amore, è al suo Cuore che noi dobbiamo attribuire tutti i suoi misteri e tutte le sue virtù. "Come è naturale per il fuoco bruciare - dice S. Tommaso - così è naturale per il cuore amare; e poiché esso nell'uomo è l'organo primario del sentimento, è conveniente che l'atto comandato dal primo di tutti i precetti sia reso sensibile mediante il cuore"
Come gli occhi vedono, e le orecchie sentono, così il cuore ama; è l'organo dell'anima per la produzione degli affetti e dell'amore. Il linguaggio ordinario ha confuso le due espressioni: si adopera la parola cuore per dire l'amore e viceversa. Il Cuore di Gesù è dunque stato l'organo del suo amore; ha cooperato al suo amore, ne è stato il principio, la sede; ha provate tutte le impressioni d'amore che possono capitare ad un uomo, con questa sola differenza, che siccome l'anima di Gesù Cristo ama di un amore incomparabile e infinito, il suo Cuore è una fornace d'amore sia per Dio che per noi; da esso si sprigionano le fiamme più ardenti e più pure dell'amore divino. Esse lo divorano, dal primo istante del suo concepimento fino all'ultimo suo respiro; e non hanno scemato dopo la sua risurrezione, e non cesseranno mai.
Questo cuore divino ha prodotto e produce quotidianamente innumerevoli atti d'amore, dei quali uno solo basta per onorare Dio più che tutti gli atti d'amore degli angeli e dei santi. Tra le creature materiali questa è quella che più di ogni altra contribuisce alla gloria del Creatore e che più di ogni altra merita il culto e l'amore degli angeli e degli uomini. Tutto ciò che riguarda la Persona del Figlio di Dio è infinitamente degno di venerazione. Una sia pur minima particella del corpo, la più impercettibile goccia del suo sangue meritano le adorazioni del cielo e della terra. Anche le cose che di per sè sarebbero le più vili, per aver anche solo toccato la sua carne diventano degne di venerazione: così la croce, e così i chiodi, le spine, la spugna e tutti gli strumenti del suo supplizio. Ma quanto di più non bisogna venerare il suo Cuore, la cui eccellenza è fondata sulla nobiltà delle funzioni che esercita, sulla perfezione dei sentimenti che produce, e dell'azione che ispira?
Se Gesù è nato in una stalla, se è vissuto povero a Nazareth, se è morto per noi, tutto questo noi lo dobbiamo al suo Cuore. Proprio in questo santuario si formavano tutte le evoluzioni eroiche, tutti i progetti che dirigevano la sua vita.
Ecco perché il suo Cuore deve essere onorato, come lo è il Presepio, nel quale l'anima fedele vede Gesù che viene al mondo povero ed abbandonato, come lo è la cattedra dalla quale Gesù ci predica il suo comandamento: Imparate da me che sono dolce ed umile di cuore; come la Croce dove il credente lo vede spirare; come il sepolcro dal quale lo vede risorgere glorioso ed immortale; e infine come il Vangelo Eterno che le insegna ad imitarne tutte le virtù, poiché di tutte esso è un modello perfetto.
L'anima devota del Sacro Cuore si dedicherà pertanto prevalentemente all'esercizio dell'amore divino, perché questo Cuore è soprattutto la sede e il simbolo di questo amore. E siccome il SS.mo Sacramento è il segno sensibile e permanente dell'amore, essa il Cuore di Gesù lo troverà nell'Eucaristia; e imparerà ad amare il suo Cuore Eucaristico.
2. - IL NOSTRO CUORE HA BISOGNO DEL CONTATTO PERMANENTE CON L'AMORE.
Se Gesù Cristo vuole essere sempre amato dall'uomo, bisogna anche che gli attesti sempre il suo amore; e come per vincere e conquistare il nostro cuore Iddio ha dovuto farsi uomo sensibile e palpabile, così, affinché la sua conquista sia stabile, egli ci deve far sentire un amore sensibile ed umanizzato. La legge dell'amore è perpetua; tale deve essere pure la sua grazia; questo sole dell'amore non deve tramontare mai sul cuore dell'uomo, ché altrimenti si raffredda e il ghiaccio della morte e dell'oblio lo seppelliranno. Il cuore non si dà che alla vita, non si unisce che all'amore attuale, quell'amore che dà continuamente prove attuali della propria esistenza.
Nel Santo Sacramento sono precisamente riuniti e trionfanti nel suo Cuore glorioso e vivente tutti quanti gli amori della vita mortale dei Salvatore e tutto l'amore di Bambino apostolo del Padre suo nella sua vita pubblica; e tutto il suo amore di vittima sulla croce. E' qui che dobbiamo venire a cercare il suo amore, e nutrircene. Egli sta anche nel cielo: è vero; ma là c'è per gli Angeli e i Santi gloriosi. Nell'Eucaristia c'è per noi; la nostra devozione verso il Sacro Cuore deve perciò essere eucaristica, deve concentrarsi nella divina Eucaristia, come nell'unico centro personale e vivente dell'amore e delle grazie del Sacro Cuore per gli uomini,
Qual motivo c'è per separare il Cuore di Gesù dal suo corpo e dalla sua divinità? Non è forse vero che egli col suo Cuore vive nel SS.mo Sacramento, e che il suo corpo è vivente ed animato?
Gesù risorto non muore più. Perché allora separare il suo Cuore dalla sua Persona e voler farlo morire nella nostra anima? No, no, questo Cuore divino nell'Eucaristia è vivo e palpitante; - vivo, ma non più della vita del Salvatore, passibile, mortale, capace ancora di tristezza, di agonia o di dolore, ma vivo di una vita di risuscitato, vita consumatesi nella beatitudine. Questa impossibilità di soffrire e di morire non diminuisce niente la realtà della sua vita; viceversa la rende più perfetta. È forse mai entrata la morte in Dio? Egli è la sorgente della vita perfetta ed eterna.
Il Cuore di Gesù è vivo nell'Eucaristia, perché in essa è vivente il suo corpo. Questo cuore, ben è vero, non è più tangibile né visibile, ma è anche vero che esso è là, per tutti gli uomini, sempre quello. Questo che è il principio stesso Sella vita deve essere misterioso e velato: discoprirlo sarebbe la sua morte; la sua esistenza la si constata solo dagli effetti che produce. L'uomo non chiede mai d't vedere il cuore dell'amico, una parola gli basta per conoscerne l'amore. Che sarà allora il Cuore divino di Gesù! Esso ci si manifesta nei sentimenti che ci ispira, tanto ci deve bastare. Chi potrebbe, d'altronde contemplare la bellezza e la bontà di questo Cuore divino? Chi potrebbe sopportare il fulgore della sua gloria, gli ardori consumatori e divoratori di questa fornace divina? Chi oserebbe anche solo guardare quest'arca divina dove sta scritto a caratteri di fuoco il Vangelo dell'amore, dove sono glorificate tutte le sue virtù, dove ha trono il suo amore e la sua bontà e tutti i suoi tesori? E chi ardirebbe penetrare nel santuario stesso della Divinità?
Il Cuore di Gesù!
Ma è quel cielo dei cieli nel quale abita lo stesso Iddio che in esso trova le sue delizie!
No, che noi non lo vediamo, il Cuore Eucaristico di Gesù, noi però lo possediamo: è nostro!
E voi desiderate forse conoscerne la vita? Essa si svolge tra il suo Eterno Padre e noi.
Egli ci guarda. Mentre sta chiuso in una povera Ostia e sembra che il Salvatore dorma il sonno dell'impotenza, il suo Cuore veglia: Ego dormio, et Cor meum vigilat. Questo cuore veglia quando noi non lo pensiamo, e non ce lo sognamo neanche; non conosce requie e lancia verso il Padre suo le sue grida supplicanti il perdono per noi. Gesù ci copre col suo Cuore e ci preserva dalle percosse dell'ira divina provocata dai nostri peccati; il suo Cuore è là, come già sulla Croce, aperto, e lascia cadere sul nostro capo i torrenti della grazia e dell'amore.
È là pronto a difenderci contro i nostri nemici, come una mamma che per difendere il suo bimbo da un pericolo, se lo stringe al cuore; e non si può giungere a lui senza prima toccare la madre. Una madre non può dimenticare il suo figlio, dice Gesù, ma anche se questo avvenisse io non vi abbandonerò giammai.
Il Cuore di Gesù guarda in secondo luogo il Padre suo. Lo adora con le sue umiliazioni ineffabili e con la sua adorazione di annientamento; lo loda, lo ringrazia dei benefici che accorda agli uomini, ai suoi fratelli; alla giustizia del Padre offre se stesso come vittima, e la sua preghiera per la Chiesa, per i peccatori e per tutte le anime che egli stesso ha redente è incessante.
Oh! Padre santo, guarda con compiacenza il Cuore dei tuo Figlio Gesù! Guarda al suo amore, ascolta i suoi sospiri; ed il Cuore Eucaristico di Gesù sia la nostra salvezza.
3 - INTIME RELAZIONI TRA IL S. CUORE E L'EUCARISTIA.
Ma le stesse ragioni in base alle quali fu istituita la Festa del Sacro Cuore e il modo con cui Gesù manifestò il suo Cuore ci insegnano che noi dobbiamo onorarlo nell'Eucaristia e che solo là noi lo troveremo con tutto il suo amore.
Santa Margherita Maria ricevette la rivelazione del Sacro Cuore mentre era dinanzi al SS.mo Sacramento; Gesù le si svelò in un'Ostia mostrandole il suo Cuore e dicendole quelle parole adorabili che costituiscono il commento più eloquente alla presenza reale del SS.mo Sacramento: "Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini!"
E, apparendo alla ven. M. Matilde, fondatrice di una società di adoratrici, le comandò di amare ardentemente, e di onorare il suo Sacro Cuore nel SS. Sacramento; questo perché fosse pegno del suo amore, perché fosse il suo rifugio in vita, e la sua consolazione nell'ora della morte.
Del resto lo scopo della festa del Sacro Cuore è quello di onorare con maggior fervore e devozione l'amore di Gesù Cristo che soffre ed istituisce il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue.
Per entrare nello spirito della devozione verso il Sacro Cuore, bisogna dunque che onoriate i patimenti passati del Salvatore e ripariate le ingratitudini di cui è colmato ogni giorno nell'Eucaristia,
Grandi sono stati i dolori del Cuore di Gesù! Tutte le prove si sono accumulate su di lui: è stato abbeverato di umiliazioni; le più ributtanti calunnie lo hanno assalito e si sono accanite per disonorarlo; è stato saziato di obbrobri; ogni genere di disprezzi gli è stato lanciato contro.
Ma a nulla è valso; egli si è offerto perché lo ha voluto lui; e non se ne è pentito. Il suo amore è stato forte più della morte e tutti i torrenti della desolazione non sono riusciti a spegnerne gli ardori.
Ora questi dolori sono finiti, non c'è dubbio, ma siccome egli li ha voluti soffrire per noi, la nostra riconoscenza non deve finire; il nostro amore deve onorarli come se fossero presenti sotto i nostri occhi. Quel Cuore che li ha patiti con tanto amore, eccolo; non è morto, è vivente, attivo; non è insensibile ma sempre più tenero.
Ohimè! Nonostante Gesù non possa più soffrire, gli uomini continuano a spiegare verso di lui una indifferenza che ha del mostruoso. E precisamente queste ingratitudini verso un Dio presente, che vive in nostra compagnia per ottenere il nostro amore, ah, questo è il supremo tormento del cuore di Gesù nel SS.mo Sacramento!
L'uomo è indifferente a questo dono supremo dell'amore di Gesù per lui. Egli non ne fa caso, neanche ci pensa, o, posto che Gesù faccia proprio di tutto per risvegliarlo dal suo torpore, ci pensa contro voglia, per scacciare questo pensiero divenuto importuno. Egli non sa che farne dell'amore di Gesù Cristo,
Più ancora. L'empio si sente costretto quasi, un po' dalla fede, un po' dai ricordi della sua educazione forse cristiana un po' dal sentimento di adorare Gesù nell'Eucaristia che Iddio stesso mette nel fondo del suo cuore. Ma egli insorge contro il più amabile fra i dogmi della fede, e giunge fino a negare, fino ad apostatare, pur di non aver da immolare a lui un idolo che sta nel suo cuore, una passione, pur di restare ancora immobilizzato nelle sue vergognose catene.
La sua malizia va ancora oltre: non si accontenta di negare, ma non indietreggia neppure dinanzi al crimine di rinnovare gli orrori della Passione del Salvatore.
Si vedono ancora dei cristiani che disprezzano Gesù nel SS.mo Sacramento, che disprezzano questo Cuore che tanto li ha amati: che ancora si consuma di amore per essi! Approfittano, per disprezzarlo, del velo che lo copre.
Lo insultano colle loro irriverenze, coi loro rei pensieri, coi loro sguardi criminali di cui neanche alla sua presenza sanno astenersi. Approfittano, per disprezzarlo, di questa pazienza inalterabile, di questa bontà che tutto sopporta in silenzio, anche gli empi soldati di Caifa, di Erode e di Pilato.
Bestemmiano, i sacrileghi, contro il Dio dell'Eucaristia; poiché sanno che il suo amore lo ha reso muto.
Lo crocifiggono nell'anima loro colpevole: lo ricevono! Osano prendere questo cuore vivente e incatenarlo al loro fetido cadavere e darlo in balia del diavolo che se ne fa padrone.
No, che Gesù anche nel tempo della sua Passione non ha mai ricevuto tanti oltraggi quanti ne riceve nel suo Sacramento. La terra per lui è un Calvario d'ignominia.
Ah, nella sua agonia egli invocava un consolatore; e sulla croce supplicava che si compatisse il suo dolore; ma presentemente quanto mai è necessario l'ammenda onorevole, e la riparazione in onore del Cuore adorabile di Gesù! Circondiamo quindi l'Eucaristia con le nostre adorazioni, col nostro amore.
Al Cuore dì Gesù vivente nel SS.mo Sacramento, amore, lode, adorazione e regno nei secoli dei secoli!

San Pietro Giuliano Eymard: Nostro Signore dimora nel SS. Sacramento per ricevere dagli uomini gli stessi omaggi che ricevette da coloro che ebbero la ventura di essergli vicini durante la sua vita mortale.


Dagli scritti

…Nostro Signore dimora nel SS. Sacramento per ricevere dagli uomini gli stessi omaggi che ricevette da coloro che ebbero la ventura di essergli vicini durante la sua vita mortale. Egli è là affinché tutti possano rendere personalmente i loro omaggi alla sua Santa Umanità. Anche quando questa fosse la sola ragione dell'esistenza dell'Eucaristia, noi dovremmo essere beati di poter rendere a Nostro Signore in persona i nostri omaggi di cristiani.
Per questa Presenza il culto pubblico ha la sua ragione di essere, ha una vita. Togliete la reale Presenza, e allora come renderete alla Santissima Umanità di Nostro Signore la venerazione, gli onori che le sono dovuti?
Nostro Signore come uomo non è che in Cielo e nel SS. Sacramento. Soltanto per mezzo dell'Eucaristia noi possiamo quaggiù avvicinarci al Divin Redentore, proprio a Lui, in persona, vederlo, parlargli; senza di essa il culto diviene astratto.
Per essa noi andiamo a Dio direttamente, ci avviciniamo a Lui come durante la sua vita mortale. Come saremmo infelici se dovessimo, per onorare l'Umanità di Gesù Cristo, riferirci soltanto a ricordi di diciannove secoli fa! Questo può bastare nella cerchia del pensiero; ma come mai rendere un omaggio esterno ad un passato così lontano? Noi ci contenteremmo di ringraziare senza prender parte ai misteri che onoriamo. Ma non è così; io posso recarmi ad adorare come i pastori, prostrarmi come i Magi. No, noi non abbiamo a rammaricarci di non essere stati a Betlemme o al Calvario.

…Quando sarò elevato da terra, attirerò ogni cosa a me. Dapprima fu dall'alto della croce che Nostro Signore attirò a sé tutte le anime, riscattandole. Ma è pure certo che Gesù, pronunziando queste parole, accennava al suo trono eucaristico, appiè del quale vuole attirare tutte le anime per legarle con le catene dei suo amore. Vuole mettere in noi un amore appassionato verso di lui.
Un'idea, una virtù, che non diventano amore appassionato, non produrranno nulla di grande. L'affezione di un fanciullo non è amore secondo tutta la forza della parola: esso ama per istinto e perché si sente amato, ama se stesso in coloro che gli fanno del bene.
Un domestico può dedicarsi tutto al suo servizio, ma non amerà davvero, se non si dedica ai suoi padroni per affetto e senza alcuna mira d'interesse personale.
L'amore trionfa allora, solo che è una passione della nostra vita. Si possono produrre atti isolati d'amore più o meno frequenti, ma la nostra vita non è impegnata, non è donata. Ora, finché non avremo per Gesù in Sacramento un amore appassionato, non avremo fatto nulla. Nostro Signore certo ci ama appassionatamente, ciecamente, senza punto pensare a se stesso, sacrificandosi tutto per noi: bisogna dunque ricambiarlo!

…Che se non giungiamo tutti fin là, tutti possiamo amare appassionatamente Gesù e lasciarci dominare da questo amore.
Non amate voi qualche persona? O madri, non avete voi un amore appassionato per i vostri figli? Spose, forse che non amate appassionatamente i vostri sposi? E voi, figli, non sentite tutta la dolcezza dell'affetto verso i vostri genitori? Or bene, applicate questo vostro amore a Gesù. Non vi sono due amori, ma uno solo. Egli non vi domanda di avere due cuori, uno per Lui e l'altro per quelli che amate su questa terra.
O madri, amate dunque il Santissimo Sacramento col vostro cuore di madre, amatelo come un figlio! Spose, amatelo come vostro sposo! Figli, amatelo come vostro padre!
Abbiamo una sola potenza di amare, ma capace di abbracciare oggetti diversi, con motivi diversi. Certuni amano alla follia i parenti, gli amici, e non sanno amare il Signore. Ma quel che facciamo per la creatura è quello stesso che dobbiamo fare per Dio: con questa differenza soltanto, che Iddio va amato senza misura e sempre più.

…Il Verbo Eterno che voleva ricondurci al Padre, non potendo come Dio praticare le virtù proprie di noi uomini, le quali implicano tutte il combattimento e il Sacrificio, si è fatto uomo; ha preso gli strumenti nostri ed ha lavorato sotto i nostri occhi. E come in Cielo, ove è ritornato glorioso, non potrebbe più esercitare la pazienza, la povertà, la umiltà, si è fatto Sacramento per continuare ad essere il nostro modello.
Queste virtù non procedono più dalla sua libera volontà per modo da produrre gli atti mentori: né ha fatto il suo stato permanente e ne è come rivestito. Prima ne praticava gli atti: ora ne ha rivestito esteriormente lo stato. Nella sua vita mortale fu umile ed umiliato; ora regna glorioso, ma in una condizione esterna di umiltà nel Santissimo Sacramento. Ha unito a se inseparabilmente lo stato abituale delle virtù: contemplandolo, noi vediamo le sue virtù e sappiamo in qual modo farne gli atti. Togliete la sua umiliazione e cessa lo stato sacramentale. Togliete la sua povertà, supponete che Egli sia seguito da uno splendido corteo; noi saremo come annientati al cospetto della sua maestà, ma non vi sarà più l'attrattiva dell'amore, perché questo non si dimostra che discendendo. Gesù in Sacramento esercita la potenza, perdona le ingiurie anche più che sul Calvario. Là i suoi carnefici non lo conoscevano, qui è conosciuto e insultato. Egli prega per tante città deicide, dalle quali è proscritto. Senza questo grido di perdono non vi sarebbe più il Sacramento d'amore, che la giustizia circonderebbe e difenderebbe il trono di Gesù insultato.

…Nostro Signore nel Santissimo Sacramento è il nostro modello; vediamo in qual modo Egli c'insegna le virtù che fanno i santi. A tal fine osserviamo qual è lo stato in cui si trova: la forma della sua vita sarà la forma delle nostre virtù. Studiare come Egli è, intenderemo quel che vuole, poiché l'esterno indica l'interno. Dalle parole, dalle maniere si argomenta quel che sta nell'anima. Quando si vedeva Nostro Signore povero e conversare con i poveri, si capiva ch'Egli era venuto a salvarci per mezzo della povertà. Quando Egli moriva per noi, c'insegnava quel che dobbiamo fare per andar in Cielo. Ora lo stato di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento, il carattere che vi domina e ci colpisce, è l'annichilamento.
Pertanto questo stato ci deve far conoscere di che si occupi e quali siano le sue virtù, che tutte, ciascuna secondo la sua natura, prenderanno questa forma, questa impronta di umiltà e di annichilamento. Studiatelo questo annientamento e saprete quel che dovete fare per rassomigliare al vostro modello, e per essere nella grazia della santità eucaristica. Ricordatevi che questo è il carattere dominante di Gesù in Sacramento e che deve essere anche il vostro se volete vivere della grazia che emana dall'Eucaristia

…Meditare Nostro Signore annichilato nell'adorabile Sacramento è il vero cammino dell'umiltà. Si comprende che il suo annichilamento è la prova più grande del suo amore e che tale deve essere pure la prova del nostro; si comprende che bisogna abbassarsi fino a Gesù Cristo che si è messo al pari con gli ultimi esseri della creazione.
Ecco la vera umiltà, che da del suo, facendo risalire a Dio l'onore e la dignità che ne riceve. Credono molti che non possiamo umiliarci se non dei nostri peccati e delle nostre miserie, non già nel bene, nella grandezza soprannaturale. Ma lo possiamo, certamente. Far risalire ogni bene a Dio è l'umiltà di ossequio, l'umiltà più perfetta. Ce la insegna Nostro Signore, e più ci appressiamo a lui, più come lui ci umiliamo. Vedete la Santissima Vergine, esente da peccato, senza difetto od imperfezione, tutta bella, tutta perfetta, tutta splendente per la sua grazia di Immacolata e per la sua incessante cooperazione: ella si umilia più di ogni altra creatura. Consiste l'umiltà nel riconoscere che nulla siamo senza Dio e nel riferire a lui tutto quel che siamo; e quanto più uno è perfetto, più cresce questa umiltà, perché ha più da rendere a Dio; a misura che le grazie ci elevano, noi discendiamo; le nostre grazie sono i gradini della nostra umiltà.
L'Eucaristia dunque c'insegna a riferire a Dio la grandezza e la gloria e non soltanto ad umiliarci delle nostre miserie. Ed è una lezione permanente. Pertanto ogni anima eucaristica deve divenir umile: la vicinanza, la compagnia di Gesù in Sacramento deve renderci tali che più non pensiamo né operiamo se non per impulso di questa divinità annichilata.

…Or che dirò della dolcezza di Gesù in Sacramento? Come vi descriverò la sua bontà nel ricevere tutti; l'affabilità, nell'adattarsi agli uni e agli altri, ai piccoli, agli ignoranti; la pazienza nell'ascoltar tutti e tutto quel che gli vogliono dire, il lungo racconto di tante miserie; la tenera sua bontà nella Comunione in cui si da a ciascuno secondo la sua condizione ed entra in tutti con gioia, purché trovi lo stato di grazia e un po' di devozione, qualche buon desiderio, almeno un po' di rispetto, e da a ciascuno la grazia che gli conviene, lasciandogli l'anima inondata di amore e di pace come ricompensa dell'accoglienza ricevuta? E quale dolcezza paziente e misericordiosa verso quelli che lo dimenticano! Li aspetta! Prega per quelli che l'offendono e lo disprezzano; non leva lamenti né fa sentire minacce; non punisce all'istante gli oltraggiatori sacrileghi, ma con la sua dolcezza e bontà si adopera a rimetterli sul buon cammino. L'Eucaristia è il trionfo della mansuetudine di Gesù Cristo.

Gesù Cristo volendo essere sempre amato dall'uomo gli da' incessanti prove del suo amore; e come, per vincere e conquistare il nostro cuore, ha dovuto farsi uomo, sensibile e palpabile, così per assicurare la sua conquista deve continuare a farci sentire un amore alla umana. Perpetua è la legge dell'amore e tale deve esserne pure la grazia; il dolce sole dell'amor di Dio non deve mai tramontare per il nostro cuore, affinché questo non sia invaso dal gelo della morte e dell'oblio. Il cuore umano si da' a quel che è vivo, si unisce all'amore che gli da prove attuali della sua esistenza.
Orbene, l'amore che animò la vita mortale del Salvatore, da quello di bambino nella culla a quello di apostolo del Padre durante la predicazione e di vittima sulla croce, tutto si trova riunito e trionfante nel suo Cuore vivente nel SS. Sacramento. Qui dobbiamo cercarlo e nutrircene. Certo il Sacro Cuore è pure in Cielo, ma per gli Angeli ed i Santi già coronati. Nell'Eucaristia è per noi.
Dunque la nostra devozione verso il Sacro Cuore dev'essere eucaristica, concentrarsi nella divina Eucaristia, come nel centro personale e vivente dell'amore e delle grazie del Sacro Cuore per noi.
Perché separare il Cuore di Gesù dal suo Corpo e dalla sua divinità? E' esso che vivifica e anima il suo Corpo nel Sacramento. Gesù risorto non muore più: perché separarne il Cuore dalla Persona e volerlo, per così dire, far morire nella nostra mente?

…Rallegratevi dunque in questo bel giorno in cui spunta sull'orizzonte il divin sole dell'Eucaristia. La vostra riconoscenza non disgiunga mai il Presepio dall'Altare, il Verbo fatto carne dall'Uomo-Dio fatto pane di vita eterna nel SS. Sacramento.

terça-feira, 23 de dezembro de 2014

BENTO XVI: os Salmos ensinam a rezar. Neles, a Palavra de Deus transforma-se em palavra de oração



 Em primeiro lugar está em questão a prioridade do primeiro mandamento: adorar unicamente a Deus. Onde Deus desaparece, o homem cai na escravidão de idolatrias, como mostraram, no nosso tempo, os regimes totalitários e como mostram também diversas formas de niilismo, que tornam o homem dependente de ídolos, de idolatrias, escravizando-o. Em segundo lugar, a finalidade primária da oração é a conversão: o fogo de Deus que transforma o nosso coração e nos torna capazes de ver Deus e, assim, de viver segundo Deus e de viver para o próximo. E o terceiro ponto: os Padres dizem-nos que também esta história de um profeta é profética, se — dizem — é sombra do porvir, do futuro Cristo; é um passo ao longo do caminho rumo a Cristo. E dizem-nos que aqui vemos o verdadeiro fogo de Deus: o amor que orienta o Senhor até à Cruz, até ao dom total de si mesmo. Então, a autêntica adoração de Deus consiste em dar-se a si próprio a Deus e aos homens, a verdadeira adoração é o amor. E a autêntica adoração de Deus não destrói, mas renova e transforma. Sem dúvida, o fogo de Deus, o fogo do amor consome, transforma e purifica, mas precisamente por isso não destrói mas, ao contrário, cria a verdade do nosso ser, volta a criar o nosso coração. E assim, realmente vivos pela graça do fogo do Espírito Santo, do amor de Deus, somos adoradores em espírito e em verdade. Obrigado!



riga
PAPA BENTO XVI
AUDIÊNCIA GERAL
Praça de São Pedro
Quarta-feira, 22 de Junho de 2011

O homem em oração (7)
O povo de Deus que reza: os Salmos
Queridos irmãos e irmãs
Nas catequeses precedentes, reflectimos sobre algumas figuras do Antigo Testamento particularmente significativas para a nossa meditação sobre a oração. Falei a respeito deAbraão, que intercede pelas cidades estrangeirasacerca de Jacob, que na luta nocturna recebe a bênçãode Moisés, que invoca o perdão para o seu povo; e sobre Elias, que reza pela conversão de Israel. Com a catequese de hoje, gostaria de começar um novo trecho do percurso: em vez de comentar episódios particulares de personagens em oração, entraremos no «livro de oração» por excelência, o livro dos SalmosNas próximas catequeses leremos e meditaremos sobre alguns dos Salmos mais bonitos e mais queridos à tradição orante da Igreja. Hoje, gostaria de os introduzir, falando sobre o livro dos Salmos no seu conjunto.
O Saltério apresenta-se como um «formulário» de orações, uma colectânea de cento e cinquenta Salmos, que a tradição bíblica oferece ao povo dos fiéis para que se tornem a sua, a nossa oração, o nosso modo de nos dirigirmos a Deus e de nos relacionarmos com Ele. Neste livro, encontra expressão toda a experiência humana, com os seus múltiplos aspectos, bem como toda a gama de sentimentos que acompanham a existência do homem. Nos Salmos entrelaçam-se e exprimem-se alegria e sofrimento, desejo de Deus e percepção da própria indignidade, felicidade e sentido de abandono, confiança em Deus e solidão dolorosa, plenitude de vida e medo de morrer. Toda a realidade do crente conflui nestas orações, que primeiro o povo de Israel e depois a Igreja assumiram como mediação privilegiada da relação com o único Deus e resposta adequada ao seu revelar-se na história. Enquanto orações, os Salmos constituem manifestações da alma e da fé, em que todos se podem reconhecer e nos quais se comunica aquela experiência de particular proximidade de Deus, à qual cada homem é chamado. E é toda a complexidade do existir humano que se concentra na complexidade das diversas formas literárias dos vários Salmos: hinos, lamentações, súplicas individuais e comunitárias, cânticos de acção de graças, Salmos sapienciais e outros géneros que se podem encontrar nestas composições poéticas.
Não obstante esta multiplicidade expressiva, podem ser identificados dois grandes âmbitos que resumem a oração do Saltério: a súplica, ligada à lamentação, e o louvor, duas dimensões ligadas entre si e quase inseparáveis. Porque a súplica é animada pela certeza de que Deus responderá, e de que isto abre ao louvor e à acção de graças; e porque o louvor e a acção de graças brotam da experiência de uma salvação recebida, que supõe uma necessidade de ajuda que a súplica exprime.
Na súplica, o orante lamenta-se e descreve a sua situação de angústia, de perigo e de desolação, ou então, como nos Salmos penitenciais, confessa a culpa, o pecado, pedindo para ser perdoado. Ele expõe ao Senhor o seu estado de espírito na confiança de ser ouvido, e isto implica um reconhecimento de Deus como bom, desejoso do bem e «amante da vida» (cf. Sb 11, 26), pronto a ajudar, salvar e perdoar. Por exemplo, assim reza o Salmista, noSalmo 31: «Junto de vós, Senhor, refugio-me. Que eu não seja confundido para sempre [...] Vós livrar-me-eis das ciladas que me armaram, porque sois a minha defesa» (vv. 2.5). Por conseguinte, já na lamentação pode sobressair algo do louvor, que se preanuncia na esperança da intervenção divina e que em seguida se faz explícita, quando a salvação divina se torna realidade. De maneira análoga, nos Salmos de acção de graça e de louvor, fazendo memória do dom recebido contemplando a grandeza da misericórdia de Deus, reconhece-se também a própria insignificância e a necessidade de ser salvo, que se encontra na base da súplica. Confessa-se assim a Deus a própria condição de criatura, inevitavelmente caracterizada pela morte, e no entanto portadora de um desejo radical de vida. Por isso o Salmista exclama, no Salmo 86: «Louvar-vos-ei de todo o coração, Senhor meu Deus, e glorificarei o vosso nome eternamente. Porque a vossa misericórdia foi grande para comigo, e tirastes a minha alma das profundezas da região dos mortos» (vv. 12-13). De tal modo, na oração dos Salmos, súplica e louvor entrelaçam-se e fundam-se num único cântico que celebra a graça eterna do Senhor que se debruça sobre a nossa fragilidade.
Precisamente para permitir que o povo dos fiéis se una a este cântico, o livro do Saltério foi concedido a Israel e à Igreja. Com efeito, os Salmos ensinam a rezar. Neles, a Palavra de Deus transforma-se em palavra de oração — e são as palavras do Salmista inspirado — que se torna também palavra do orante que recita os Salmos. Estas são a beleza e a particularidade deste livro bíblico: as preces nele contidas, diversamente de outras orações que encontramos na Sagrada Escritura, não estão inseridas numa trama narrativa que especifica o seu sentido e a sua função. Os Salmos são dados ao fiel precisamente como texto de oração, que tem como única finalidade tornar-se a oração daqueles que os assumem e com eles se dirigem a Deus. Dado que são uma Palavra de Deus, quem recita os Salmos fala a Deus com as palavras que o próprio Deus nos concedeu, dirige-se a Ele com as palavras que Ele mesmo nos doa. Deste modo, recitando os Salmos aprendemos a rezar. Eles constituem uma escola de oração.
Algo de análogo acontece quando a criança começa a falar, ou seja, a expressar as próprias sensações, emoções e necessidades, com palavras que não lhe pertencem de modo inato, mas que ele aprende dos seus pais e de que vive ao seu redor. Aquilo que a criança quer manifestar é a sua própria vivência, mas o instrumento expressivo pertence a outros; e ele apropria-se do mesmo gradualmente, as palavras recebidas dos pais tornam-se as suas palavras e através destas palavras aprende também um modo de pensar e de sentir, acede a um inteiro mundo de conceitos, e nele cresce, relaciona-se com a realidade, com os homens e com Deus. Finalmente, a língua dos seus pais tornou-se a sua língua, ele fala com palavras recebidas de outros, que já se tornaram as suas palavras. Assim acontece com a oração dos Salmos. Eles são-nos doados para que aprendamos a dirigir-nos a Deus, a comunicarmos com Ele, a falar-lhe de nós com as suas palavras, a encontrar uma linguagem para o encontro com Deus. E, através de tais palavras, será possível também conhecer e aceitar os critérios do seu agir, aproximar-se ao mistério dos seus pensamentos e dos seus caminhos (cf. Is 55, 8-9), de maneira a crescer cada vez mais na fé e no amor. Do mesmo modo como as nossas palavras não são apenas palavras, mas ensinam-nos um mundo real e conceitual, assim também estas preces nos ensinam o Coração de Deus, pelo que não só podemos falar com Deus, mas podemos aprender quem é Deus e, aprendendo a falar com Ele, aprendemos como ser homens, como sermos nós mesmos.
A este propósito, parece significativo o título que a tradição judaica conferiu ao Saltério. Ele chama-se tehillîm, um termo hebraico que quer dizer «louvores», tirada daquela raiz verbal que encontramos na expressão «Halleluyah», isto é, literalmente: «Louvai o Senhor». Por conseguinte, este livro de orações, não obstante seja tão multiforme e complexo, com os seus diversos géneros literários e com a sua articulação entre louvor e súplica, é em última análise um livro de louvores, que ensina a dar graças, a celebrar a grandeza do dom de Deus, a reconhecer a beleza das suas obras e a glorificar o seu Nome santo. Esta é a resposta mais adequada diante do manifestar-se do Senhor e da experiência da sua bondade. Ensinando-nos a rezar, os Salmos ensinam-nos que também na desolação, inclusive na dor, a presença de Deus é uma fonte de maravilha e de consolação; pode-se chorar, suplicar, interceder e lamentar-se, mas com a consciência de que estamos a caminhar rumo à luz, onde o louvor poderá ser definitivo. Como nos ensina o Salmo 36: «Em vós está a fonte da vida, e é na vossa luz que vemos a luz!» (Sl 36, 10).
Mas além deste título geral do livro, a tradição judaica atribuiu a muitos Salmos alguns títulos específicos, conferindo-os em grande maioria ao rei David. Figura de notável importância humana e teológica, David é uma personagem complexa, que atravessou as mais diversificadas experiências fundamentais do viver. Jovem pastor do rebanho paterno, passando pelas vicissitudes alternadas e por vezes dramáticas, torna-se rei de Israel, pastor do povo de Deus. Homem de paz, combateu muitas guerras; incansável e tenaz investigador de Deus, traiu o seu Amor, e isto é característico: permaneceu sempre investigador de Deus, não obstante tenha pecado muitas vezes gravemente; penitente humilde, recebeu o perdão divino, mas também a pena divina, e aceitou um destino marcado pela dor. Assim, David foi um rei, com todas as suas debilidades, «segundo o Coração de Deus» (cf. 1 Sm 13, 14), ou seja, um orante apaixonado, um homem que sabia o que quer dizer suplicar e louvar. Por conseguinte, a ligação dos Salmos a este insigne rei de Israel é importante, porque ele é uma figura messiânica, Ungido do Senhor, no qual é de certa maneira ofuscado o mistério de Cristo.
Igualmente importantes e significativos são o modo e a frequência com que as palavras dos Salmos são retomadas pelo Novo Testamento, assumindo e sublinhando aquele valor profético sugerido pela ligação do Saltério à figura messiânica de David. No Senhor Jesus, que na sua vida terrena recitou com os Salmos, eles encontram o seu cumprimento definitivo e revelam o seu sentido mais pleno e profundo. As orações do Saltério, com as quais se fala a Deus, falam-nos dele, falam-nos do Filho, imagem do Deus invisível (cf. Cl 1, 15), que nos revela completamente o Rosto do Pai. Portanto o cristão, recitando os Salmos, reza o Pai em Cristo e com Cristo, assumindo aqueles cânticos numa nova perspectiva, que tem no mistério pascal a sua última chave interpretativa. O horizonte do orante abre-se assim a realidades inesperadas, e cada Salmo adquire uma nova luz em Jesus Cristo, e o Saltério pode resplandecer em toda a sua riqueza infinita.
Caríssimos irmãos e irmãs, tomemos portanto na nossa mão este livro santo, deixemo-nos ensinar por Deus a dirigir-nos a Ele, façamos do Saltério uma guia que nos ajude e nos acompanhe quotidianamente no caminho da oração. E perguntemos também nós, como os discípulos de Jesus: «Senhor, ensinai-nos a rezar!» (Lc 11, 1), abrindo o coração para receber a oração do Mestre, em que todas as preces hão-de chegar ao seu cumprimento. Deste modo, tornando-nos filhos no Filho, poderemos falar a Deus, chamando-lhe «Pai Nosso». Obrigado!

segunda-feira, 22 de dezembro de 2014

BENTO XVI: Como posso participar fecundamente no Nascimento do Filho de Deus, ocorrido há mais de dois mil anos? Na Liturgia, este acontecimento ultrapassa os limites do espaço e do tempo e torna-se actual, presente


PAPA BENTO XVIAUDIÊNCIA GERAL
Sala Paulo VIQuarta-feira, 21 de Dezembro de 2011

O Santo Natal
Amados irmãos e irmãs,
Estou feliz por vos receber na Audiência geral a poucos dias da celebração do Natal do Senhor. A saudação que nestes dias está nos lábios de todos é: «Feliz Natal! Votos de boas festas natalícias!». Façamos com que, também na sociedade contemporânea, a troca dos bons votos não perca o seu profundo valor religioso, e a festa não seja absorvida pelos aspectos exteriores, que tocam as cordas do coração. Sem dúvida, os sinais externos são bonitos e importantes, contanto que não nos distraiam mas, ao contrário, nos ajudem a viver o Natal no seu sentido mais verdadeiro, o sagrado e cristão, de modo que também a nossa alegria não seja superficial, mas profunda.
Com a liturgia natalícia, a Igreja introduz-nos no grande Mistério da Encarnação. Com efeito, o Natal não é um simples aniversário do Nascimento de Jesus; é também isto, mas é mais, é celebração de um Mistério que marcou e continua a marcar a história do homem — o próprio Deus veio habitar no meio de nós (cf. Jo 1, 14), fez-se um de nós; um Mistério que diz respeito à nossa fé e à nossa existência; um Mistério que vivemos concretamente nas celebrações litúrgicas, em particular na Santa Missa

Alguém poderia perguntar-se: como é possível que eu viva agora um acontecimento tão distante no tempo? Como posso participar fecundamente no Nascimento do Filho de Deus, ocorrido há mais de dois mil anos? Na Santa Missa da Noite de Natal, repetiremos como refrão ao Salmo responsorial estas palavras: «Hoje nasceu para nós o Salvador». Este advérbio de tempo, «hoje», recorre várias vezes em todas as celebrações natalícias e refere-se ao acontecimento do Nascimento de Jesus e à salvação que a Encarnação do Filho de Deus vem trazer. Na Liturgia, este acontecimento ultrapassa os limites do espaço e do tempo e torna-se actual, presente; o seu efeito perdura, apesar do decorrer dos dias, dos anos e dos séculos. Indicando que Jesus nasce «hoje», a Liturgia não usa uma frase sem sentido, mas ressalta que este Nascimento envolve e permeia toda a história, permanece uma realidade também hoje, à qual podemos chegar precisamente na liturgia. 


Para nós, crentes, a celebração do Natal renova a certeza de que Deus está realmente presente connosco, é ainda «carne» e não está só distante: embora esteja com o Pai, está próximo de nós. Deus, naquele Menino nascido em Belém, aproximou-se do homem: podemos encontrá-lo agora, num «hoje» que não conhece ocaso.
Gostaria de insistir sobre este ponto, porque o homem contemporâneo, homem do «sensível», do experimentável empiricamente, tem cada vez mais dificuldade de abrir os horizontes e entrar nmundo de Deus. A redenção da humanidade realiza-se certamento e num momento específico e identificável da história: no acontecimento de Jesus de Nazaré; mas Jesus é o Filho de Deus, é o próprio Deus, que não só falou ao homem, mostrou-lhe sinais admiráveis, guiou-o ao longo de toda uma história de salvação, mas fez-se homem e permaneceu homem.

 O Eterno entrou nos limites do tempo e do espaço, para tornar possível «hoje» o encontro com Ele. Os textos litúrgicos natalícios ajudam-nos a compreender que os acontecimentos da salvação realizada por Cristo são sempre actuais, dizem respeito a cada homem e a todos os homens. 

Quando ouvimos ou pronunciamos, nas celebrações litúrgicas, este «hoje nasceu para nós o Salvador», não usamos uma expressão convencional vazia, mas queremos dizer que Deus nos oferece «hoje», agora, para mim, para cada um de nós, a possibilidade de O reconhecer e acolher, como fizeram os pastores em Belém, para que Ele nasça inclusive na nossa vida e a renove, ilumine e transforme com a sua Graça, com a sua Presença.
Portanto, o Natal enquanto comemora o Nascimento de Jesus na carne, a partir da Virgem Maria — e numerosos textos litúrgicos fazem reviver aos nossos olhos este ou aquele episódio — é um acontecimento eficaz para nós. Apresentando o sentido profundo da Festa do Natal, o Papa são Leão Magno convidava os seus fiéis com estas palavras: «Exultemos no Senhor, meus amados, e abramos o nosso coração à alegria mais pura, porque surgiu o dia que para nós significa a nova redenção, a antiga preparação, a felicidade eterna. Com efeito, renova-se para nós no recorrente ciclo anual, o alto mistério da nossa salvação que, prometido no início e concedido no final dos tempos, está destinado a durar sem fim» (Sermo 22, In Nativitate Domini, 2, 1: PL 54, 193). E, ainda são Leão Magno, noutra sua Homilia de Natal, afirmava: «Hoje o Autor do mundo foi gerado do seio de uma virgem: Aquele que fez todas as coisas tornou-se filho de uma mulher, por Ele mesmo criada. Hoje, o Verbo de Deus apareceu revestido de carne e, embora nunca tivesse sido visível aos olhos humanos, tornou-se também visivelmente palpável. Hoje, os pastores ouviram da voz dos anjos que nasceu o Salvador, na substância do nosso corpo e da nossa alma» (Sermo 26, In Nativitate Domini, 6, 1: PL 54, 213).
Há um segundo aspecto, ao qual gostaria de me referir brevemente: o acontecimento de Belém deve ser considerado à luz do Mistério pascal: ambos fazem parte da única obra redentora de Cristo. A Encarnação e o Nascimento de Jesus já nos convidam a dirigir o olhar para a sua morte e ressurreição: Natal e Páscoa são ambos festas da redenção. A Páscoa celebra-a como vitória sobre o pecado e a morte: determina o momento final, quando a glória do Homem-Deus resplandece como a luz do dia; o Natal celebra-a como o entrar de Deus na história, fazendo-se homem para levar o homem a Deus: marca, por assim dizer, o momento inicial, quando se entrevê o clarão da alvorada. Mas precisamente como a aurora precede e já faz pressentir a luz do dia, assim o Natal já anuncia a Cruz e a glória da Ressurreição. Também os dois períodos do ano, em que estão inseridas estas duas grandes festas, pelo menos em certas regiões do mundo, podem ajudar a compreender este aspecto. Com efeito, enquanto a Páscoa se celebra no início da Primavera, quando o sol vence os nevoeiros densos e frios, e renova a face da terra, o Natal celebra-se precisamente no início do Inverno, quando a luz e o calor do sol não conseguem despertar a natureza, envolvida pelo frio, sob cujo manto, contudo, palpita a vida e recomeça a vitória do sol e do calor.
Os Padres da Igreja liam sempre o Nascimento de Cristo à luz de toda a obra redentora, que encontra o seu ápice no Mistério pascal. A Encarnação do Filho de Deus manifesta-se não só como o início e a condição da salvação, mas como a própria presença do Mistério da nossa salvação: Deus faz-se homem, nasce criança como nós, assume a nossa carne para derrotar a morte e o pecado. Dois textos significativos de são Basílio explicam-no bem. São Basílio dizia aos fiéis: «Deus assume a carne precisamente para destruir a morte nela escondida. Como os antídotos a um veneno, quando são ingeridos, anulam os seus efeitos, e como as trevas de uma casa se dissipam à luz do sol, assim a morte que predominava sobre a natureza humana foi destruída pela presença de Deus. E como o gelo que permanece sólido na água, enquanto dura a noite e reinam as trevas, mas derrete-se imediatamente ao calor do sol, assim a morte que reinara até à vinda de Cristo, logo que surgiu a graça de Deus Salvador e despontou o sol da justiça, “foi engolida pela vitória” (1 Cor 15, 54), pois não podia coexistir com a Vida» (Homilia sobre o Nascimento de Cristo, 2: pg 31, 1461). E ainda são Basílio, noutro texto, dirigia este convite: «Celebremos a salvação do mundo, o Natal do género humano. Hoje foi perdoada a culpa de Adão. Já não devemos dizer: “És pó e pó te hás-de tornar” (Gn 3, 19), mas: unido Àquele que veio do Céu, serás admitido no Céu» (Homilia sobre o Nascimento de Cristo, 6: pg 31, 1473).
No Natal encontramos a ternura e o amor de Deus que se inclina sobre os nossos limites, as nossas debilidades, os nossos pecados, e desce até nós. São Paulo afirma que Jesus Cristo, «embora fosse de condição divina... aniquilou-se a si mesmo, assumindo a condição de escravo e assemelhando-se aos homens» (Fl 2, 6-7). Contemplemos a gruta de Belém: Deus abaixa-se a ponto de ser colocado numa manjedoura, que já é prelúdio da humilhação na hora da sua paixão. O ápice da história de amor entre Deus e o homem passa através da manjedoura de Belém e do sepulcro de Jerusalém.


Caros irmãos e irmãs, vivamos com alegria o Natal que se aproxima. Vivamos este acontecimento maravilhoso: o Filho de Deus nasce ainda «hoje», Deus está verdadeiramente próximo de cada um de nós e quer encontrar-nos, deseja levar-nos até Ele. Ele é a verdadeira luz, que dissipa e dissolve as trevas que envolvem a nossa vida e a humanidade. Vivamos o Natal do Senhor, contemplando o caminho do amor imenso de Deus, que nos elevou a Si através do Mistério da Encarnação, Paixão, Morte e Ressurreição do seu Filho, porque — como afirma santo Agostinho — «em [Cristo] a divindade do Unigénito fez-se partícipe da nossa mortalidade, a fim de que nós participássemos na sua imortalidade» (Epístola 187, 6, 20: pl 33, 839-840). Sobretudo, contemplemos e vivamos este Mistério na celebração da Eucaristia, centro do Santo Natal; ali torna-se presente de modo real Jesus, verdadeiro Pão que desceu do Céu, autêntico Cordeiro sacrificado pela nossa salvação.
Faço votos a todos vós e às vossas famílias, para que celebreis um Natal autenticamente cristão, de modo que também a troca de bons votos nesse dia seja expressão da alegria de saber que Deus está próximo de nós e quer percorrer connosco o caminho da vida. Obrigado!

quinta-feira, 18 de dezembro de 2014

BENTO XVI: A oração de Jesus diz respeito a todas as fase do seu ministério e a todos os seus dias. As dificuldades não a impedem

PAPA BENTO XVIAUDIÊNCIA GERAL
Sala Paulo VIQuarta-feira, 30 de Novembro de 2011

A oração atravessa toda a vida de Jesus
Queridos irmãos e irmãs,
Nas últimas catequeses reflectimos sobre alguns exemplos de oração no Antigo Testamento, e hoje gostaria de começar a olhar para Jesus, para a sua oração, que atravessa toda a sua vida, como um canal secreto que irriga a existência, as relações e os gestos, e que O guia, com firmeza progressiva, rumo ao dom total de Si mesmo, segundo o desígnio de amor de Deus Pai. Jesus é o Mestre também das nossas orações, aliás, Ele é o nosso sustento concreto e fraterno, cada vez que nos dirigimos ao Pai. Verdadeiramente, como resume um título doCompêndio do Catecismo da Igreja Católica, «a oração é plenamente revelada e realizada em Jesus» (nn. 541-547). Nas próximas catequeses desejamos olhar para Ele.
Um momento particularmente significativo deste seu caminho é a oração que se segue ao baptismo, ao qual se submete no rio Jordão. O Evangelista Lucas escreve que Jesus, depois de ter recebido, juntamente com todo o povo, o baptismo das mãos de João Baptista, entra numa oração extremamente pessoal e prolongada: «Todo o povo tinha sido baptizado; tendo Jesus sido baptizado também, e estando Ele a orar, o céu abriu-se e o Espírito Santo desceu sobre Ele» (Lc 3, 21-22).

Precisamente este «estar em oração», em diálogo com o Pai, ilumina a obra que Ele realizoujuntamente com muitos do seu povo, que acorreram à margem do Jordão. Rezando, Ele confere a este seu gesto, do baptismo, uma característica exclusiva e pessoal.
João Baptista tinha dirigido um apelo vigoroso a viver verdadeiramente como «filhos de Abraão», convertendo-se para o bem e produzindo frutos dignos de tal mudança (cf. Lc 3, 7-9). E um grande número de israelitas moveu-se, como recorda o Evangelista Marcos, o qual escreve: «Saíam ao seu encontro [de João] todos os habitantes da Judeia e de Jerusalém, e eram baptizados por ele no rio Jordão, confessando os seus pecados» (Mc 1, 5). João Baptista anunciava algo realmente novo: submeter-se ao baptismo devia marcar uma mudança determinante, abandonar um comportamento ligado ao pecado e começar uma vida nova. Também Jesus acolhe este convite, entra na multidão triste dos pecadores que esperam à margem do Jordão. Mas, como aos primeiros cristãos, também em nós surge a interrogação: por que Jesus se submete voluntariamente a este baptismo de penitência e de conversão? Não tem pecados para confessar, não tinha pecados, e portanto também não tinha necessidade de se converter. Então, por que este gesto? O Evangelista Mateus descreve a admiração de João Baptista, que afirma: «Eu é que tenho necessidade de ser baptizado por ti e Tu vens a mim?» (Mt 3, 14), e a resposta de Jesus: «Deixa por agora. Convém que cumpramos assim toda a justiça» (v. 15). O sentido da palavra «justiça» no mundo bíblico é aceitar plenamente a vontade de Deus. Jesus mostra a sua proximidade àquela parte do seu povo que, seguindo João Baptista, reconhece que é insuficiente o simples considerar-se filho de Abraão, mas quer cumprir a vontade de Deus, deseja comprometer-se para que o seu comportamento seja uma resposta fiel à aliança oferecida por Deus em Abraão. Então, descendo ao rio Jordão, Jesus sem pecado torna visível a sua solidariedade para com aqueles que reconhecem os próprios pecados, escolher arrepender-se e mudar de vida; faz compreender que pertencer ao povo de Deus significa entrar numa perspectiva de novidade de vida, de vida segundo Deus.
Neste gesto, Jesus antecipa a cruz, dá início à sua actividade assumindo o lugar dos pecadores, carregando sobre os seus ombros o peso da culpa da humanidade inteira, cumprindo a vontade do Pai. Recolhendo-se em oração, Jesus mostra o vínculo íntimo com o Pai que está nos Céus, experimenta a sua paternidade, captura a beleza exigente do seu amor e, no diálogo com o Pai, recebe a confirmação da sua missão. Nas palavras que ressoam do Céu (cf. Lc 3, 22) há a referência antecipada ao mistério pascal, à cruz e à ressurreição. A voz divina define-o «O meu Filho muito amado», evocando Isaac, o amadíssimo filho que o pai Abraão estava disposto a sacrificar, segundo a ordem de Deus (cf. Gn 22, 1-14). Jesus não é só o Filho de David, descendente messiânico real, ou o Servo do qual Deus se compraz, mas é também o Filho unigénito, o amado, semelhante a Issac, que Deus Pai oferece para a salvação do mundo.

No momento em que, através da oração, Jesus vive em profundidade a própria filiação e a experiência da paternidade de Deus (cf. Lc 3, 22b), desce o Espírito Santo (cf. Lc 3, 22a), que o guia na sua missão e que Ele efundirá depois de ter sido elevado na cruz (cf. Jo 1, 32-34; 7, 37-39), para que ilumine a obra da Igreja. Na oração, Jesus vive um contacto ininterrupto com o Pai, para realizar até ao fim o desígnio de amor pelos homens.
No fundo desta oração extraordinária encontra-se toda a existência de Jesus, vivida numa família profundamente ligada à tradição religiosa do povo de Israel. Demonstram-no as referências que encontramos nos Evangelhos: a sua circuncisão (cf. Lc 2, 21) e a sua apresentação no templo (cf. Lc 2, 22-24), assim como a educação e a formação em Nazaré, na casa santa (cf. Lc 2, 39-40 e 2, 51-52). Trata-se de «cerca de trinta anos» (Lc 3, 23), um tempo prolongado de vita escondida e útil, embora com as experiências de participação em momentos de expressão religiosa comunitária, come as peregrinações a Jerusalém (cf. Lc 2, 41). Narrando-nos o episódio de Jesus no templo quando tinha doze anos, sentado no meio dos doutores (cf. Lc 2, 42-52), o Evangelista Lucas deixa entrever como Jesus, que reza depois do baptismo no Jordão, tem um prolongado hábito de oração íntima com Deus Pai, arraigada nas tradições, no estilo da sua família e nas experiências decisivas nela vividas. A resposta do menino de doze anos a Maria e José já indica aquela filiação divina, que a voz celeste manifesta após o baptismo: «Por que me procuráveis? Não sabíeis que devia estar em casa de meu Pai?» (Lc 2, 49). Ao sair das águas do Jordão, Jesus não inaugura a sua oração, mas continua a sua relação constante, habitual com o Pai; e é nesta união íntima com Ele que realiza a passagem da vida escondida de Nazaré, para o seu ministério público.
O ensinamento de Jesus sobre a oração deriva, sem dúvida, do seu modo de rezar, adquirido em família, mas tem a sua origem profunda e essencial no seu ser o Filho de Deus, na sua relação singular com Deus Pai. À pergunta: De quem aprendeu Jesus a rezar?, o Compêndio do Catecismo da Igreja Católica assim responde: «Jesus, segundo o seu coração de homem, foi ensinado a rezar por sua Mãe e pela tradição judaica. Mas a sua oração brota de uma fonte secreta, porque Ele é o Filho eterno de Deus que, na sua santa humanidade, dirige a seu Pai a oração filial perfeita» (n. 541).
Na narração evangélica, as ambientações da oração de Jesus colocam-se sempre na encruzilhada entre a inserção na tradição do seu povo e a novidade de uma relação pessoal singular com Deus. «O lugar deserto» (cf. Mc 1, 35; Lc 5, 16) em que se retira com frequência, «o monte» onde sobe para rezar (cf. Lc 6, 12; 9, 28) e «a noite» que lhe permite a solidão (cf. Mc 1, 35; 6, 46-47; Lc 6, 12) evocam momentos do caminho da revelação de Deus no Antigo Testamento, indicando a continuidade do seu desígnio salvífico. Mas, ao mesmo tempo, indicam momentos de importância particular para Jesus que, de modo consciente, se insere neste plano, totalmente fiel à vontade do Pai.

Também na nossa oração temos que aprender, cada vez mais, a entrar nesta história de salvação, cujo ápice é Jesus, renovar diante de Deus a nossa decisão pessoal para nos abrirmos à sua vontade, pedir-lhe a força de conformar a nossa vontade com a sua, em toda a nossa vida, em obediência ao seu desígnio de amor por nós.
A oração de Jesus diz respeito a todas as fase do seu ministério e a todos os seus dias. As dificuldades não a impedem. Aliás, os Evangelhos deixam transparecer um hábito de Jesus, de transcorrer em oração uma parte da noite. O Evangelista Marcos narra uma destas noites, depois do dia pesado da multiplicação dos pães, e escreve: «Jesus obrigou logo os seus discípulos a subirem para o barco e a irem à frente, outro outro lado, rumo a Betsaida, enquanto Ele próprio despedia a multidão. Depois de os ter despedido, foi ao monte para orar. Já era noite, o barco estava no meio do mar e Ele sozinho em terra» (Mc 6, 45-47). Quando as decisões se fazem urgentes e complexas, a sua prece torna-se mais prolongada e intensa. Na iminência da escolha dos doze Apóstolos, por exemplo, Lucas sublinha a duração da oração preparatória de Jesus à noite: «Naqueles dias, Jesus foi para o monte fazer a oração e passou toda a noite a orar a Deus.Quando nasceu o dia, convocou os seus discípulos e escolheu doze dentre eles, aos quais deu o nome de Apóstolos» (Lc 6, 12-13).
Olhando para a oração de Jesus, em nós deve surgir uma pergunta: como rezo eu, como oramos nós? Que tempo dedico à relação com Deus? Tem-se hoje uma educação e formação suficiente para a oração? E quem pode ser mestre nisto? Na Exortação Apostólica Verbum Domini falei sobre a importância da leitura orante da Sagrada Escritura. Reunindo o que sobressaiu na Assembleia do Sínodo dos Bispos, pus em evidência especial a forma específica da lectio divina. Ouvir, meditar e silenciar diante do Senhor que fala é uma arte, que se aprende praticando-a com constância. Certamente, a oração é um dom, que todavia é necessário acolher; é obra de Deus, mas exige o nosso compromisso e continuidade; sobretudo, a continuidade e a constância são importantes. Precisamente a experiência exemplar de Jesus mostra que a sua oração, animada pela paternidade de Deus e pela comunhão do Espírito, aprofundou-se num exercício prolongado e fiel, até ao Horto das Oliveiras e à Cruz. Hoje, os cristãos são chamados a tornar-se testemunhas de oração, precisamente porque o nosso mundo se encontra muitas vezes fechado ao horizonte divino e à esperança que contém o encontro com Deus.
Na amizade profunda com Jesus e vivendo nele e com Ele a relação filial com o Pai, através da nossa oração fiel e constante, podemos abrir janelas para o Céu de Deus. Aliás, ao percorrer o caminho da oração, sem uma consideração humana, podemos ajudar outros a percorrê-lo: também para a oração cristã é verdade que, caminhando, se abrem veredas.
Amados irmãos e irmãs, eduquemo-nos para uma relação intensa com Deus, para uma prece que não seja esporádica, mas constante, cheia de confiança, capaz de iluminar a nossa vida, como nos ensina Jesus. E peçamos-lhe que possamos comunicar às pessoas que estão próximas de nós, àqueles que encontramos ao longo do nosso caminho, a alegria do encontro com o Senhor, Luz para a nossa existência. Obrigado!

quarta-feira, 17 de dezembro de 2014

BENTO XVI: «Levantando os olhos ao alto, Jesus disse: “Pai, rendo-te graças, porque me ouviste!”» (Jo 11, 41): é uma eucaristia. A frase revela que Jesus não interrompeu nem sequer por um instante a oração de pedido pela vida de Lázaro. Pelo contrário, esta oração contínua revigorou o vínculo com o amigo e, contemporaneamente, confirmou a decisão de Jesus de permanecer em comunhão com a vontade do Pai, com o seu plano de amor

PAPA BENTO XVIAUDIÊNCIA GERAL
Sala Paulo VIQuarta-feira, 14 de Dezembro de 2011

A oração diante da acção benéfica e curadora de Deus
Queridos irmãos e irmãs,
Hoje gostaria de meditar convosco a respeito da oração de Jesus, vinculada à sua prodigiosa actividade de cura. Nos Evangelhos são apresentadas várias situações em que Jesus reza diante da acção benéfica e curadora de Deus Pai, que age através dele. Trata-se de uma oração que, mais uma vez, manifesta a relação singular de conhecimento e de comunhão com o Pai, enquanto Jesus se deixa envolver com grande participação humana na dificuldade dos seus amigos, por exemplo de Lázaro e da sua família, ou dos numerosos pobres e enfermos que Ele deseja ajudar concretamente.
Um caso significativo é a cura do surdo-mudo (cf. Mc 7, 32-37). A narração do evangelista Marcos — que há pouco ouvimos — demonstra que a acção curadora de Jesus está ligada a uma sua relação intensa, quer com o próximo — o doente — quer com o Pai. A cena do milagre é descrita atentamente assim: «Jesus tomou-o à parte, afastando-se da multidão, pôs-lhe os dedos nos ouvidos e tocou-lhe a língua com a saliva. Levantando os olhos ao céu, suspirou dizendo-lhe: “Effatá”!, que quer dizer “Abre-te”!» (7, 33-34). Jesus deseja que a cura se verifique «à parte, afastando-se da multidão». Isto não parece devido unicamente ao facto de que o milagre se deve conservar escondido das pessoas, para evitar que se formem interpretações limitativas ou deturpadas da pessoa de Jesus. A escolha de levar o doente «à parte» faz com que, no momento da cura, Jesus e o surdo-mudo se encontrem sozinhos, aproximados por uma relação singular. Com um gesto, o Senhor toca os ouvidos e a língua do doente, ou seja, os lugares específicos da sua enfermidade. A intensidade da atenção de Jesus manifesta-se também nos traços insólitos da cura: Ele emprega os seus dedos e até a própria saliva. Também o facto de que o Evangelista cite a palavra original, pronunciada pelo Senhor — «Effatá», ou seja, «Abre-te!» — põe em evidência o carácter singular desta cena.
Mas o ponto central deste episódio é o facto de que Jesus, no momento de realizar a cura, procura directamente a sua relação com o Pai. Com efeito, a narração diz que Ele, «levantando os olhos ao céu, suspirou» (v. 34). A atenção ao enfermo, o cuidado de Jesus para com ele estão ligados a uma profunda atitude de oração dirigida a Deus. E a emissão do suspiro é descrita com um verbo que no Novo Testamento indica a aspiração a algo de bom que ainda falta (cf. Rm 8, 23).

 Então, o conjunto da narração demonstra que o envolvimento humano com o enfermo leva Jesus à oração. Mais uma vez sobressai a sua relação singular com o Pai, a sua identidade de Filho Unigénito. Nele, através da sua pessoa, torna-se presente o agir curador e benéfico de Deus. Não é por acaso que o comentário conclusivo das pessoas, depois do milagre, recorda a avaliação da criação no início do Génesis: «Ele fez bem todas as coisas» (Mc 7, 37). Na obra curadora de Jesus sobressai de modo claro a oração, com o seu olhar voltado para o Céu. A força que curou o surdo-mudo é, sem dúvida, provocada pela compaixão por ele, mas provém do recurso ao Pai. Encontram-se estas duas relações: a relação humana de compaixão para com o homem, que entra em relação com Deus, tornando-se assim cura.
Na narração joanina da ressurreição de Lázaro, esta mesma dinâmica é testemunhada com uma evidência ainda maior (cf. Jo 11, 1-44). Também aqui se entrelaçam, por um lado, o vínculo de Jesus com um amigo e com o seu sofrimento e, por outro, a relação filial que Ele mantém com o Pai. A participação humana de Jesus na vicissitude de Lázaro contém características particulares. Em toda a narração é reiteradamente recordada a amizade com ele, mas também com as irmãs Marta e Maria. O próprio Jesus afirma: «Lázaro, nosso amigo, está a dormir, mas vou despertá-lo» (Jo 11, 11). O afecto sincero pelo amigo é evidenciado inclusive pelas irmãs de Lázaro, assim como pelos judeus (cf. Jo 11, 3; 11, 36), manifesta-se na comoção profunda de Jesus à vista da dor de Marta e Maria e de todos os amigos de Lázaro, e desabrocha no desatar em lágrimas — tão profundamente humano — no aproximar-se do túmulo: «Então... ao vê-la [Marta] chorar, como também todos os judeus que a acompanhavam, Jesus ficou intensamente comovido em espírito. E, sob o impulso de profunda emoção, perguntou: “Onde o pusestes?”. Responderam-lhe: “Senhor, vinde ver!”. Jesus pôs-se a chorar» (Jo 11, 33-35).
Este vínculo de amizade, a participação e a emoção de Jesus diante do sofrimento dos parentes e dos conhecidos de Lázaro está ligado em toda a narração a uma relação contínua e intensa com o Pai. Desde o início, este acontecimento é interpretado por Jesus em relação à sua própria identidade e missão, e à glorificação que O espera. Com efeito, à notícia da doença de Lázaro, Ele comenta: «Esta enfermidade não causará a morte, mas tem por finalidade a glória de Deus. Por ela será glorificado o Filho de Deus» (Jo 11, 4). Também o anúncio da morte do amigo é acolhido por Jesus com profunda dor humana, mas sempre em clara referência à relação com Deus e com a missão que Ele lhe confiou; e diz: «Lázaro morreu. Alegro-me por vossa causa, por não ter estado lá, para que acrediteis» (Jo 11, 14-15). O momento da oração explícita de Jesus ao Pai diante do túmulo constitui a conclusão natural de toda a vicissitude, inserida neste dúplice contexto da amizade com Lázaro e da relação filial com Deus. Também aqui as duas relações caminham juntas. «Levantando os olhos ao alto, Jesus disse: “Pai, rendo-te graças, porque me ouviste!”» (Jo 11, 41): é uma eucaristia. A frase revela que Jesus não interrompeu nem sequer por um instante a oração de pedido pela vida de Lázaro. Pelo contrário, esta oração contínua revigorou o vínculo com o amigo e, contemporaneamente, confirmou a decisão de Jesus de permanecer em comunhão com a vontade do Pai, com o seu plano de amor, no qual a doença e a morte de Lázaro devem ser consideradas como um âmbito no qual se manifesta a glória de Deus.
Estimados irmãos e irmãs, lendo esta narração, cada um de nós é chamado a compreender que na oração de pedido ao Senhor não devemos esperar um cumprimento imediato daquilo que nós pedimos, da nossa vontade, mas devemos confiar-nos sobretudo à vontade do Pai, interpretando cada acontecimento na perspectiva da sua glória, do seu desígnio de amor, muitas vezes misterioso aos nossos olhos. Por isso, na nossa oração, o pedido, o louvor e a acção de graças deveriam amalgamar-se, mesmo quando nos parece que Deus não corresponde às nossas expectativas concretas.

O abandonar-se ao amor de Deus, que nos precede e nos acompanha sempre, é uma das atitudes fundamentais do nosso diálogo com Ele. O Catecismo da Igreja Católica comenta assim a oração de Jesus na narração da ressurreição de Lázaro: «Apoiada na acção de graças, a oração de Jesus revela-nos como devemos pedir: antes de lhe ser dado o que pede, Jesus adere Àquele que dá, e se dá nos seus dons. O Doador é mais precioso que o dom concedido, é o “tesouro”, e é n’Ele que está o coração do Filho; o dom é dado “por acréscimo”» (cf. Mt 6, 21; e 6, 33)» (n. 2.604).

 Isto parece-me muito importante: antes que o dom seja concedido, aderir Àquele que doa; o doador é mais precioso que o dom. Por conseguinte, também para nós, além daquilo que Deus nos concede quando O invocamos, o maior dom que Ele nos pode oferecer é a sua amizade, a sua presença, o seu amor. Ele é o tesouro precioso que devemos pedir e conservar sempre.
A oração que Jesus pronuncia, enquanto retiram a pedra da entrada do túmulo de Lázaro, apresenta também um desenvolvimento singular e inesperado. Com efeito Ele, depois de ter dado graças a Deus Pai, acrescenta: «Eu bem sei que sempre me ouves, mas falo assim por causa do povo que está ao redor, para que creiam que Tu me enviaste» (Jo 11, 42). Com a sua oração, Jesus deseja conduzir à fé, à confiança total em Deus e na sua vontade, e quer mostrar que este Deus, que amou de tal modo o homem e o mundo, que chegou a enviar o seu único Filho (cf. Jo 3, 16), é o Deus da Vida, o Deus que traz a esperança e é capaz de inverter as situações humanamente impossíveis. 

Então, a oração confiante de um crente constitui um testemunho vivo desta presença de Deus no mundo, do seu interessar-se pelo homem, do seu agir para realizar o seu plano de salvação.
As duas orações de Jesus agora meditadas, que acompanham a cura do surdo-mudo e a ressurreição de Lázaro, revelam que o profundo vínculo entre o amor a Deus e o amor ao próximo deve entrar também na nossa oração. Em Jesus, verdadeiro Deus e verdadeiro homem, a atenção pelo outro, de maneira especial se é necessitado e sofredor, o comover-se diante da dor de uma família amiga, levam-no a dirigir-se ao Pai, naquela relação fundamental que orienta toda a sua vida. Mas também vice-versa: a comunhão com o Pai, o diálogo constante com Ele, impele Jesus a estar atento de modo singular às situações concretas do homem, para ali levar a consolação e o amor de Deus. A relação com o homem guia-nos rumo à relação com Deus, e a relação com Deus orienta-nos de novo para o próximo.
Caros irmãos e irmãs, a nossa oração abre a porta a Deus, que nos ensina a sair constantemente de nós mesmos para sermos capazes de nos aproximar-nos do outro, especialmente nos momentos de provação, para lhes levar a consolação, a esperança e a luz.
O Senhor nos conceda ser capazes de uma oração cada vez mais intensa, para fortalecer a nossa relação pessoal com Deus Pai, abrir o nosso coração às necessidades daqueles que estão ao nosso lado e sentir a beleza de ser «filhos no Filho», juntamente com muitos irmãos. Obrigado!